sabato 10 marzo 2012

non sogno, son desta. tempo di lettura previsto 2'01"


ho appena schiacciato una bestia.
una di quelle con la buccia e le zampe di cui non riesco neanche a pronunciare il nome, tanto mi fa impressione.
quella là. no, evidentemente non sono mai stata in campeggio. ed è la prima volta che mi succede di trovarmi in un faccia a faccia simile: in passato, alla bisogna, avevo da chiamare nell’ordine un portiere servile, una signora amorevole che mi rigovernava casa, la moglie del portiere, un marito che si scapicollava dall’ufficio, una mamma –paurosa come me- ma che comunque si animava di coraggio e procedeva.
e oggi invece sono andata per pulire dietro al divano e ho trovato il mostro.
e da chiamare non avevo proprio nessuno: non un portiere –né tantomeno la moglie, non un marito, mamma sta a novecento km., e il mio coinquilino se ne è tornato al suo paese di duecento animelle.
potevo chiamare robert, di giorno anonimo signore sovrappeso con le sopracciglia ad ala di gabbiano, di notte drag queen nel peggiore privè di torino, ma credo che lui ignori perfino la mia esistenza e quindi.
in realtà l’innominabile è solo un pretesto, così come lo sono i muri scrostati di pittura, gli infissi marci, un letto con le molle di fuori, mobili di truciolato ricoperti di carta adesiva, rubinetti che perdono, la tenda della doccia che si azzecca addosso, panni stesi ad asciugare sulla stufa.
un pretesto per chiedermi  cosa mi ha rotolato fin qui dall’agio di una casa bellissima in una zona esclusiva della città, la tata due volte alla settimana, il parrucchiere, la serenità di pianificare un futuro, del sano shopping, i viaggi, l’allegria, la possibilità di fare progetti.
credo di essere nel posto sbagliato e di essere nata per altro. non ho vergogna di dire che tutto questo mi fa abbastanza schifo, diciamo. rivorrei indietro la mia vita, quella più comoda, senza troppi ostacoli, esteticamente corretta, non senza dolori ma confortevole, con tutte le cose più o meno al loro posto.
una vita dove anche se non sai cosa ti aspetta, sai che troppo malaccio non può essere in fondo, una vita senza bestie con la buccia, né infissi marci, una vita in cui, alla fine del mese hai uno stipendio che ti consente di farti un piccolo regalo, pagarti un fitto dignitoso, avere una tata che ti aiuta. sì perché a me fare i mestieri in casa mi fa veramente orrore, s’è capito.
qualcuno direbbe che sto crescendo, qualcun altro che certi agi li ho avuti e che la ruota gira, qualcun altro ancora che ho goduto immeritatamente fin ora di privilegi ingiusti e quindi ben mi sta.
i più ottimisti mi inviterebbero a pensare che in fondo c’è chi sta peggio –cosa verissima, peraltro- a guardare fuori dagli ospedali, ai cinquantenni in cassa integrazione con tre figli, a chi una casa neanche ce l’ha; e i più semplici che in fondo ho una bella intelligenza e sicuramente le cose si metteranno bene e che c’è solo da saper aspettare e portare un po’ di pazienza.
e io infatti questo faccio, aspetto, non bovinamente, certo,  non senza tentare di indirizzare il mio destino, ma comunque aspetto e non riesco a fare a meno di credere che non è esattamente così che me l’ero immaginata la mia vita.
da adolescente pensavo che da grande  sarei stata una signora allegra, morbida, con un lavoro dignitoso, un marito, una casa in campagna, cani, gatti, bambini, degli alberi da frutto, tante amiche, una macchina scassata, un orticello.
le premesse c’erano tutte –morbidezza e gatti in primis- ma le cose non sono andate esattamente così, e a distanza di vent’anni  non riesco ancora a staccarmi da quella immagine di felicità semplice che ancora, nonostante tutto, inseguo.