venerdì 8 marzo 2013

lotto marzo. tempo di lettura previsto 2'14"


era bello l'otto marzo quando andavo al liceo.
era bello perchè sapevo che c'era comunque un fiore anche per me.
nei giorni che lo precedevano le prof. più emancipate, quelle che avevano fatto il '68, per intenderci, farcivano le ore di lezione con i racconti dell'esplosione di una miniera di non so più dove, e lo strazio di tutte quelle operaie morte e quindi la tutela e quindi il rispetto e quindi la rivendicazione dei diritti e bla.
ma non mancavano, le stesse figlie della rivoluzione sessuale con un piede ancora negli anni '50, di compulsare quei poveracci dei nostri compagni di classe, a portarci un rametto di mimosa. e loro non mancavano mai a questo appuntamento, mai, mai. 
chi per la paura di una interrogazione punitiva, chi per approfittare dell'occasione ghiotta e fare il carino con quella che gli piaceva, chi perchè era talmente soggetto che se non assolveva ad un dovere imposto, ne moriva.
a farne le spese era il gigantesco albero di mimose che incombeva all'ingresso dell'edificio. ci vuole fortuna pure a nascere alberi e lui, purtroppo, non ne ha avuta mai. negli anni temo che migliaia di sedicenni si siano appesi ai suoi rami stanchi, spennandolo senza pietà, pur di risparmiare le tremila lire che sarebbero servite per comprare le mimose quelle vere, con la carta trasparente intorno e il nastrino rosso, in vendita dall'abusivo sotto scuola.
qualcuno però le mimose quelle grassocce, gialle gialle le portava veramente. erano quelli che dovevano fare i fighi e non te le lasciavano sul banco, ma aspettavano che la prof. entrasse per esibirsi nel gesto plateale. e poi c'erano quelli che io a queste cose non mi piego, faccio il superiore, io, che sono queste cretinate, e ti lanciavano dall'ultimo banco una pallina di mimosa triste e solitaria, che però, non sai perchè, ti faceva piacere lo stesso.
dubito che anche solo uno di quei ragazzi goffi e coi capelli appiccicati di gel, capisse il significato del gesto che era chiamato a fare: al diavolo la memoria delle operaie sepolte nel crollo, e pure l'albero, certo, che pena qui rami spezzati, ma vuoi mettere l'emozione di quelle palline da infilare sull'orecchio?
perchè hai quindici anni. e quando hai quindici anni, un fiore ti strappa un sorriso, sempre.
anche perchè poi arrivano i venti, e poi i trenta. e ti avvii verso i quaranta e gli unici fiori che ricevi sono quelli che ti porta nonna al compleanno, o un corteggiatore sfigatissimo con cui tanto non uscirai mai.
perchè dice che l'emancipazione, certo, che dobbiamo essere uguali uomini e donne, stessi diritti, stessi doveri, che avere le stesse opportunità non può essere l'atto di benevolenza di un governo, ma un diritto acquisito.
ma infatti.
e quindi facciamo le femmine sfrontate, che escono solo in branchi, e ci facciamo forza tra di noi, ci raccontiamo le reciproche pene d'amor perduto, per scoprire, che poi sono sempre le stesse, per scoprire che poi sono sempre gli stessi, e dio questi maschi, sono tutti così prevedibili, sono tutti così insopportabili, sono tutti così inguaribili, giuro se rinasco divento lesbica.
e tutto questo è molto triste. ed è triste per entrambi.
incredibile a dirsi, è vero, siamo uguali, e non c'è legge che ce lo abbia imposto: siamo ugualmente impoveriti, ugualmente infelici, ugualmente condannati a vivere guardando l'altro con diffidenza, neanche fosse un nemico. carichi di quei pregiudizi e di quei luoghi comuni che precedono la fama di chiunque, anche di un perfetto sconosciuto, persuasi che l'altro non potrà mai essere diverso da come la convenzione vuole che sia.
siamo sconsolati, stanchi, malinconici, sfiduciati. siamo fondamentalmente soli.
non ci crediamo più, e non so se è solo perchè non abbiamo più quindici anni.
ma io rivoglio le mie mimose, a me quei rami spelacchiati mi mancano assai.